I lettori più giovani probabilmente non sanno di cosa stiamo parlando perchè questo è un fatto accaduto 39 anni fa e che in questi giorni celebra la ricorrenza.
La tragedia di Vermicino è la storia di un bimbo di 6 anni caduto dentro un pozzo molto stretto e morto dopo tre giorni di sofferenze ed inutili tentativi di salvarlo.
Una storia che tenne sveglia l’Italia intera per tre giorni, una storia raccontata da una diretta RAI non stop, una vicenda a cui partecipò in prima persona l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini. Una storia finita male che oggi vogliamo riproporvi attraverso le parole dell’ultimo soccorritore, un uomo di piccole dimensioni che per ultimo si infilò in quel maledetto pozzo per salvare la vita del piccolo Alfredino.
Ripercorriamo la storia da un articolo del Corriere della Sera.
I fatti– Alfredino, aveva sei anni. Era in vacanza con i suoi genitori nella casa di Vermicino, Roma. Il pomeriggio di quel 10 giugno, alla fine di una passeggiata con il padre Ferdinando, chiese: «Papà, posso tornare per i campi da solo?». L’uomo acconsentì e lo vide allontanarsi felice verso casa. Due ore dopo lungo quello stesso percorso c’erano decine di persone a chiamare il suo nome. Alfredino era scomparso. Fu la nonna a suggerire l’idea di un pozzo appena scavato ma coperto da una lamiera e delle pietre. Un poliziotto si prese la briga di sollevarle e sentì un rantolo provenire dal fondo: Alfredino era li, a 64 metri di profondità di un pozzo stretto, molto stretto.
Da quel momento scattarono le le ricerche e le soluzioni più disparate per accedere nel pozzo: intervennero pompieri, geologi, speleologi. Si pensava di scavare ma il rischio di peggiorare la situazione era altissimo. Ci furono diversi tentativi di scendere in profondità ma risultarono inutili a causa delle ridotte dimensioni del pozzo. Finchè…finchè un uomo di piccole dimensioni non si volle avventurare: Angelo Licheri, sardo di Gavoi. Nel racconto della moglie le sue ultime parole a casa prima della decisione: come tutti gli italiani rimase davanti allo schermo per due giorni finché la sera del 12 giugno disse alla donna che allora era sua moglie: «Esco a prendere le sigarette». E lei: «Fra mezz’ora è pronta la cena». Lo vide uscire e – confesserà dopo – le venne spontaneo un pensiero: «Vuoi vedere che quel pazzo vuole andare a Vermicino…». Nelle ore precedenti lo aveva visto davanti allo specchio fare strane contorsioni con le braccia in alto. «Che fai?» aveva chiesto. «Niente, un po’ di ginnastica», aveva risposto lui. Ma cos’altro poteva essere quella strana ginnastica se non prove immaginarie di movimenti nel pozzo? Lei non disse nulla ma capì.
Il racconto di Angelo Licheri – “Non sapevo nemmeno dove fosse quel posto. Ricordo solo che ho fatto tutte le infrazioni possibili per arrivarci. Mi sono fatto l’ultimo tratto a piedi, sono arrivato davanti al blocco e non mi hanno fatto passare, ma non avrei ceduto per niente al mondo. Così ho costeggiato una via che portava al pozzo e, come un ladro, sono passato in mezzo a una vigna finché ci sono arrivato davanti. C’era un cordone di militari e mi sono detto: e adesso che faccio? A quello che mi ha bloccato ho detto che mi aspettava il capo dei pompieri: puoi andare a dirgli che è arrivato Angelo? Lui è andato e io mi sono infilato fra i soccorritori. In mezzo a loro c’era Franca, la mamma di Alfredino. Al capo dei vigili del fuoco ho detto: sono piccolo, fatemi scendere. E lui: lei è troppo emotivo. Ha qualche malattia, qualche problema… L’ho interrotto. Gli ho detto: senta, io sto benissimo, voglio solo scendere. La mia determinazione è stata più forte dei loro no alla fine l’ho vinta io..”
Era la notte fra il 12 e il 13 giugno, ed erano già passati tre giorni dalla caduta. Angelo raggiunse Alfredino dopo venti minuti. La luce fioca della sua torcia illuminò quel bambino incastrato in un punto largo 28 centimetri.
“Gli tolsi il fango dagli occhietti e dalla bocca e cominciai a fargli promesse che avrei senz’altro mantenuto. Gli dissi: ho tre bambini e uno è più piccolo di te. Hanno tutti la bicicletta. Sai che facciamo? Appena usciamo ne compro una anche a te, vedrai che sarai orgoglioso di questa bici nuova. E poi ti compro anche una barchetta, mi hanno detto che sai pescare bene… Lui emetteva quel rantolo che è qui, nella mia testa… Lo imbragai una prima volta e diedi il segnale alla squadra in superficie. Ma lo strattone fu troppo forte e la cinghia scivolò fuori dalle braccia. La rimisi e tentarono ancora ma stavolta fu il moschettone a sganciarsi. Ho provato a prenderlo per i gomiti ma niente, non si riusciva. Alla fine l’ho afferrato per i polsi e nel tentativo di tirarlo su gli ho rotto quello sinistro. Ho sentito un lamento, lieve. Non aveva più forze, povera creatura. Gli ho detto: dopo tutta la sofferenza che hai patito ci mancavo proprio io a farti ancora più male.
Il bambino era a 64 metri di profondità. Gli ho tolto il fango dagli occhi e dalla bocca e ho cominciato a parlargli, dolcemente. So che capiva tutto. Non riusciva a rispondere ma l’ho sentito rantolare e per me era quella la sua risposta. Quando smettevo di parlare rantolava più forte, come per dirmi: continua che ti sto ascoltando. Dopo vari tentativi andati a vuoto, l’ultimo che ho fatto è stato prenderlo per la canottierina, ma appena hanno cominciato a tirare ho sentito che cedeva… E allora gli ho mandato un bacino e sono venuto via. Ciao piccolino
Quando mi tirarono su mi ritrovai davanti alla mamma di Alfredino. Venne da me e mise le sue mani sulle mie guance: mi dica come sta il mio bambino, chiese. Io fui sincero: signora, è ancora vivo ma se non si fa in fretta non so quanto potrà resistere. Ancora oggi ogni tanto la sento per un saluto”
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