Ieri è stato il Giorno della Memoria, ogni 27 gennaio si ricorda la tragedia della Shoah, lo sterminio di sei milioni di esseri umani. Noi vogliamo farlo pubblicando un articolo che abbiamo ricevuto e che volentieri condividiamo.
Ricordare per educare alle differenze. Riflessioni sulla Memoria
“Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.”
Primo Levi, Se questo è un uomo
Il 27 Gennaio, Giorno della Memoria della Shoah, è una data ormai universalmente nota.
Istituita dal Parlamento italiano con la legge 211 del 20 luglio 2000, e ratificata sul piano internazionale dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 1° novembre 2005 con la risoluzione 60/7, questa giornata è oggi quasi interamente dedicata al ricordo delle vittime dell’Olocausto.
Dalla televisione ai social media, dai percorsi tematici nelle librerie ai seminari nelle scuole e nelle università, in questo giorno l’attenzione del pubblico è polarizzata da una serie di contenuti pensati ad hoc, la cui visualizzazione o condivisione si configura allo stesso tempo come un rituale collettivo e una sorta di ammenda sociale.
Lungi dall’essere educato o spinto in direzione di una riflessione matura e attuale sull’Olocausto, il grande pubblico vede in questa data, e nel modello comunicativo che la esalta, un drammatico evento storico da ricordare e dal quale, semplicemente, prendere le distanze. In effetti, il messaggio trasmesso negli anni circa il significato profondo di questa ricorrenza è inestricabilmente connesso al popolo ebraico – una caratteristica che rende l’evento del quale si vuole conservare la memoria estremamente specifico e circoscrivibile. E non stupisce come gli ebrei europei, oggetto di una vergognosa e reiterata propaganda antisemita almeno fin dal XIV secolo, fossero le vittime perfette della Germania Nazista e dei Paesi che, come l’Italia di Mussolini, operarono le stesse scelte scellerate: dalla promulgazione delle leggi razziali ai rastrellamenti per la deportazione nei campi di lavoro e di sterminio.
Ancora oggi c’è chi sostiene che la storia stessa delle persecuzioni e delle peregrinazioni del popolo ebraico ponesse le basi e le premesse per quella che i Nazisti definirono Endlösung, Soluzione Finale, quasi a voler trovare una spiegazione razionale a delle azioni percepite come assurde e crudeli. Quante volte abbiamo quindi sentito dire che mai più accadrà lo sterminio di un popolo per motivi etnici, religiosi o culturali? Che mai più l’altro potrà essere emarginato da uno Stato che se ne fa nemico e carnefice? Eppure la storia è ricca di esempi, anche più vicini nel tempo: basterebbe citare il genocidio dei Tutsi in Ruanda nel 1994, quello, più complesso, a opera dei Khmer Rossi di Pol Pot in Cambogia tra il 1975 e il 1979, o il massacro di Srebenica in Bosnia nel 1995.
E un’attenta analisi della storia ci insegna anche che, nonostante quanto appaia agli occhi di chi oggi cerca di non vedere, la razionalità era alla base dell’opera di sterminio nazista. Scienza e progresso industriale furono infatti messi al servizio dell’atrocità per liberarsi non solo degli ebrei, ma di omosessuali, disabili, individui di etnia rom, dissidenti, prostitute, e chiunque fosse considerato indesiderabile o scomodo per il regime. È proprio questo connubio tra progresso e aberrazione, tra apparato industriale e devastazione dell’essere umano, che rende la Shoah diversa da altri genocidi, anche più recenti, e dalla sistematica eliminazione di dissidenti politici che ha contraddistinto molti totalitarismi nel corso della storia del Novecento.
Lo spiega bene il sociologo Zygmunt Bauman nel suo libro “Modernità e Olocausto”, quando sostiene che, a livello sociale, ciò che risulta più difficile accettare è che la Shoah non rappresenti una pausa di barbara crudeltà nel civile progresso della modernità, ma, al contrario, che la crudeltà dell’Olocausto – dai tentativi di eugenetica all’industria della morte nei campi di sterminio – rappresenti, in realtà, l’altra faccia della modernità stessa.
Questo rapporto simbiotico potrebbe allora, forse, in parte spiegare le nuove spinte negazioniste e revisioniste che si fanno sempre più strada in modo trasversale all’interno dell’opinione pubblica. Non più ideologie esclusive di gruppi complottisti che discutono di pratiche esoteriche e protocolli di Sion, nel Rapporto Italia 2020 di Eurispes, il 15,6% degli intervistati dichiarava di negare l’esistenza della Shoah, mentre il 16,1% sosteneva la tesi revisionista, ridimensionando la portata del tragico evento. Nello stesso sondaggio, ben il 61,7% degli intervistati sosteneva che i recenti episodi di antisemitismo – dalle minacce e gli insulti alla Senatrice Liliana Segre, che non sembrano essersi arrestate dal 2019 a oggi, fino agli atti vandalici ai danni dei discendenti di sopravvissuti e partigiani – fossero da considerare episodi isolati. Contemporaneamente, però, la maggioranza degli intervistati (60,6%) riteneva che queste azioni fossero la conseguenza di una retorica apertamente xenofoba e razzista da parte di una determinata classe politica.
Una retorica che si traduce in un linguaggio d’odio che viaggia veloce soprattutto sul web, dove, oltretutto, è ormai consuetudine ironizzare su eventi drammatici come l’Olocausto o commercializzare abbigliamento e accessori con riferimenti espliciti ai lager nazisti e al regime fascista.
In un’epoca contrassegnata da una immediata libertà di espressione e condivisione del proprio pensiero attraverso il mezzo telematico, e davanti a una certa politica che mira a polarizzare l’opinione pubblica attraverso una propaganda populista apertamente razzista nei confronti dei nuovi indesiderabili d’Occidente, qual è oggi il ruolo della Memoria e come si può utilizzare il ricordo dell’Olocausto per educare alle differenze le nuove generazioni nell’era digitale?
Lo abbiamo chiesto a Daniela Dana Tedeschi, Presidente dell’Associazione Figli della Shoah, che ringraziamo per questa breve ma significativa intervista.
Presidente, come è stato sottolineato più volte e in diverse occasioni, la memoria è uno strumento essenziale per la comprensione di un fenomeno delicato e doloroso come quello della Shoah. Cosa significa per Voi continuare a tramandare questa memoria, specialmente negli ultimi anni, che hanno visto il revisionismo e il negazionismo attrarre sostenitori in numero sempre maggiore?
Il Giorno della Memoria ci ricorda ogni 27 gennaio la tragedia della Shoah, lo sterminio di sei milioni di esseri umani di religione ebraica sterminati delle forze nazifasciste e dai loro collaboratori in tutta Europa.
In questi vent’anni di commemorazioni, molto è stato fatto sia nelle scuole che nelle Istituzioni pubbliche per ricordare e cercare di comprendere ciò che è stato. La migliore risposta contro ogni revisionismo e negazionismo, oltre che riconoscere ed analizzare la complessità storica di questo fenomeno, è quella di ricordare che la Shoah è avvenuta in Europa, nella stessa Europa in cui oggi ci muoviamo come in un unico grande paese e che lo sterminio non è stato l’unico atto, ma la burocratica conclusione di una persecuzione legalizzata degli inalienabili diritti civili prima e delle vite poi, durata anni e resa effettiva da gente qualunque, non da mostri spietati.
Tramandare la Memoria oggi, significa dotarsi degli indispensabili strumenti per conoscere e riflettere sull’ambiguità umana riconoscendo come il bene ed il male possano alternarsi in ognuno di noi. La Shoah è la metafora assoluta per un lavoro sull’animo umano: una logica che guida e porta la maggioranza a restare indifferente e a diventare complice del sopruso e delle ingiustizie, dove solo una minoranza più o meno consistente trova il coraggio di rifiutarlo, anche a costo della propria vita.
Il Giorno della Memoria deve essere il punto di partenza e non quello di arrivo: un percorso che aiuti a distillare un antidoto contro l’oscuramento delle coscienze e della ragione e soprattutto ci porti ad una nuova consapevolezza della responsabilità individuale nel riconoscere per tempo i segnali che preannunciano nelle nostre società qualsiasi tipo di violenza e sopruso a danno dei più deboli ed emarginati.
Considerando l’influenza della rete nella formazione di gruppi e opinioni condivise, e alla luce delle novità introdotte nell’ultimo anno, che ha visto una riduzione drastica dei rapporti interpersonali e una rivoluzione nella didattica, è realistico pensare di poter raggiungere le nuove generazioni esclusivamente attraverso il lavoro degli insegnanti e gli incontri istituzionali?
La terribile pandemia che sta condizionando la nostra vita, sconvolgendo tutti i nostri abituali rapporti interpersonali ed il modo con il quale ci rapportiamo agli altri, ci ha cambiato profondamente. Siamo sempre più connessi e la rete diventa il luogo virtuale nel quale le informazioni girano con maggiore velocità, e pericolose semplificazioni della realtà creano disinformazione e mistificazioni.
Credo che quando l’emergenza sanitaria sarà finita, il nostro lavoro di sensibilizzazione verso le giovani generazioni riguardo a questo tema sarà arricchito dagli strumenti virtuali che abbiamo imparato ad utilizzare in questi mesi, ma sono certa che torneremo ad incontrare i ragazzi in presenza, organizzando momenti di studio e confronto, viaggi della Memoria e condivisione di progetti formativi.
Qual è il messaggio che vorreste lasciare ai ragazzi oggi?
Il messaggio che mi sento di lasciare oggi ai ragazzi e quello di non voltare mai la testa dall’altra parte, di prendere posizione e di non dimenticare mai la grandissima forza morale che ognuno di noi ha in se stesso.
“Non voltare mai la testa dall’altra parte” e “prendere posizione”: è questo quello che hanno fatto negli anni i sopravvissuti all’Olocausto, i testimoni che hanno trovato la forza di ripercorrere quell’inferno di sofferenza per denunciare i crimini e la crudeltà, non solo di chi perpetrò la violenza nei confronti loro e delle loro famiglie, ma anche di chi voltò la testa dall’altra parte, preferendo la tranquillità di una posizione privilegiata, e di tutti coloro i quali, dopo la liberazione dai lager, preferirono non chiedere e non sapere.
La negazione del racconto, operata dalle istituzioni come dai comuni cittadini, fu una dolorosa pagina nel percorso di molti dei sopravvissuti, dai quali si pretendeva un quieto ritorno a quella normalità che era stata loro strappata via il giorno in cui la discriminazione diventò legge e, ad esempio, ai bambini ebrei in Italia fu impedito il ritorno a scuola: il primo di una lunga serie di eventi traumatici che Liliana Segre, monumento vivente alla Shoah in Italia, spesso ricorda nelle sue testimonianze.
Lo ricorda anche Sami Modiano, espulso dalla scuola nel 1938 e poi deportato ad Auschwitz-Birkenau insieme alla sua famiglia all’età di tredici anni. Nel campo di sterminio, dove la tenacia di suo padre evitò che fosse immediatamente condotto alla camera a gas, perse il padre stesso e la sorella Lucia, ma riuscì a stringere una profonda amicizia con Piero Terracina, anche lui superstite, di qualche anno più grande. L’amicizia, ricorda la grande maggioranza dei testimoni, fu essenziale alla sopravvivenza. Andando oltre la superficialità di quel sentimento salvifico che i film che trattano il tema dell’Olocausto amano mostrare, l’amicizia, come i piccoli gesti di resistenza – dallo scambio delle scarpe volutamente spaiate al baratto di piccoli oggetti e residui di cibo all’interno delle capanne – serviva a umanizzare degli individui ai quali era stato strappato il loro status di persone.
Non più nomi ma numeri, tatuati sul braccio in spregio a qualsiasi considerazione religiosa o culturale, come il marchio a fuoco di bestie destinate al macello. E da tali erano trattati i prigionieri, fin dal trasporto sui treni merci che attraversavano le città per giungere infine, già carichi dei corpi di chi non era sopravvissuto al viaggio, ai campi di concentramento.
Oggi vediamo altri mezzi di trasporto, carichi di genti di diversa etnia e religione, ma la discriminazione e l’indifferenza davanti a chi porta con sé le testimonianze di atrocità e violenze non è cambiata. I diritti umani vengono negati mentre molte, troppe persone voltano la testa dall’altra parte, e c’è ancora tanto da fare perché la memoria di ciò che è stato possa arginare il pericolo di ciò che potrebbe essere ancora.
Marzia La Barbera
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